Diavoli nel fango

Alcune giornate segnano la vita delle città e dei suoi abitanti in maniera indelebile. Certe volte, in una manciata di giorni, si possono provare sentimenti così contrastanti che, chi non li ha vissuti, non può comprendere a pieno.
I metereologi prevedevano i rischi, i giornali riportavano titoli apocalittici, eppure tutto sembrava come un normale acquazzone. Dietro l’incredulità, che poche ore dopo avremmo maledetto, ci sono ragioni ben precise. La nostra quotidianità è scandita da orari, schemi, tragitti non decisi da noi: sono quelli che ci portano ogni giorno nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università. Chi giudica stupidi o imprudenti coloro che hanno rischiato o perso la vita uscendo nel bel mezzo dell’inferno per raggiungere parenti, amici o semplicemente la propria casa, non tiene conto del fatto che viviamo in una società dove purtroppo non ci è concesso rimanere sotto le coperte se il tempo fuori non ci aggrada.
Le scuole erano aperte, ai lavoratori di ogni categoria toccava far funzionare la città come in un qualsiasi giorno, macchine e cassonetti (che per partite di calcio o semplici manifestazioni vengono portati via senza il minimo buonsenso) rimanevano al loro posto. Per gli errori di valutazione degli “esperti” e di chi ha in mano il potere in questa città, non si è evitato l’evitabile: la strage di chi lavorava come in un giorno normale o di chi tentava di raggiungere i propri cari (la rete di telefonia mobile impazzita per 24 h rende bene la quantità di persone che avevano qualcuno per cui stare in pensiero).
Ma c’è anche stato un duplice errore di noi tutti. Credere alle istituzioni, che non meritano alcuna fiducia; delegare a chi ci comanda la sicurezza nostra e di chi ci è più caro. La reazione dei giorni seguenti però possiamo definirla incredibile se non magica. Una città che spesso viene descritta come avida, soprattutto di sentimenti, dove della socialità e del mutuo appoggio, per cui i quartieri erano famosi, non è rimasto che uno sbiadito ricordo, ha deciso finalmente di non aspettare che dai piani alti arrivassero le soluzioni e gli aiuti.
Sotto gli occhi complici dei passanti i cantieri della città sono stati “ripuliti”, da alcuni volenterosi, di tutto ciò che poteva essere utile: non hanno aspettato che qualcuno dicesse dove andare, non hanno aspettato che qualcuno procurasse pale, secchi, cuffe.
La macchina dei soccorsi non convinceva nessuno: pochi uomini, pochi mezzi, l’assurdità delle strade distrutte dalla furia del fango, zone altamente presidiate dalle Forze dell’Ordine perché sotto i riflettori dei media, e zone completamente dimenticate dalla stessa Protezione Civile, che nel frattempo dissuadeva dal muoversi autonomamente chi voleva dare una mano.
Quando abbiamo iniziato a lavorare ci sentivamo impotenti, impacciati, quasi inutili. Ma col passare delle ore, con l’aumentare delle braccia abbiamo iniziato a renderci conto della nostra forza, guardavamo increduli riemergere i marciapiedi, i tombini, le panchine prima irriconoscibili. L’entusiasmo del trovare in un amico o in un conoscente un fratello, da abbracciare alla fine delle mille piccole “imprese” che hanno segnato le giornate, lo scovare in sconosciuti lo stesso sorriso sui volti sporchi e affaticatici ha fatto sentire vicini. Nessuno comandava le operazioni, ognuno metteva a disposizione la propria esperienza e le proprie conoscenze.
Dividerci i pasti distribuiti, brindare con le birre regalate, passarci sigarette… Dietro la gioia del riscoprire che uniti e auto-organizzati si vince c’è la consapevolezza di essersi opposti a una devastazione, che non cade dal cielo come l’acqua ma che si infiltra nelle nostre vite quotidiane. La scelta di non delegare ad autorità e istituzioni la pulizia delle strade, l’aiuto a chi ha perso casa, non è del tutto “angelica” come i media provano a far passare.
Quella voglia di vedere coi nostri occhi le zone disastrate, procurarci da soli il necessario per ripulirle, lavorare dividendoci spontaneamente compiti e mansioni, inventarsi soluzioni per superare senza scoraggiarsi ogni ostacolo, non nasce solo da un sentimento di solidarietà ma anche da precisi motivi di rabbia: la rabbia verso chi considera agibili pezzi di città che si trasformano in trappole mortali e allo stesso tempo sfratta chi non può permettersi un affitto o chi vive in edifici che per motivi speculativi vengono considerati inagibili; la rabbia verso chi ha tenuto aperti luoghi di lavoro e scuole per poi addirittura vantarsene il giorno seguente, la rabbia verso chi pretende di comandarci, decidere per noi e poi si dimostra totalmente sprezzante delle vite degli abitanti della città; la rabbia verso chi ha speculato per decenni cementificando, edificando dove era folle, strozzando in una morsa di case abitate corsi d’acqua poi abbandonati a sé stessi.
Questa rabbia ha donato fiducia in noi stessi e negli altri abitanti della città, ci ha convinti definitivamente a non avere nessuna fiducia in politici di ogni colore e istituzioni, il cui solo compito è di perpetrare la ricchezza di pochi impoverendo molti. Tagli ai servizi pubblici (sanità, trasporti, istruzione, assistenza), lavoro precario e introvabile, strozzinaggio legalizzato tramite prestiti e mutui, ci rendono sempre più sfruttati e ricattabili.
Non dimentichiamoci la lezione di questi giorni: supportandoci, incontrandoci, conoscendoci possiamo migliorare i nostri quartieri e riscoprirci più forti e capaci delle istituzioni. Non deleghiamo a nessuno i nostri bisogni: che si pretendano case, rimborsi, aiuti a chi ha perso la casa o a chi ha subito danni nell’alluvione, e che non si creda a nessuna promessa.
Se le case non arrivano presto, che vengano prese! La città è piena di edifici in ottime condizioni perfettamente abitabili, rompere i lucchetti e le serrature, prenderseli, è un gesto giusto e sacrosanto quanto spalare via il fango.
Diavoli nel fango

Comments are closed.