Ancora una volta… – In merito ad alluvioni e catastrofi “naturali”

Volantino distribuito al corteo in Val Bisagno il 18 ottobre 2014, nei quartieri colpiti dall’alluvione recente

 

Ancora una volta

…Genova deve fare i conti con l’irruenza dei suoi fiumi, con la furia di un’alluvione che sconvolge tratti di città, quartieri, portando morte e rovinando vite intere.

Ancora una volta la retorica politica occupa la scena: con i suoi politici, i suoi mezzi d’informazione, le sue forze dell’ordine varie, le sue polemiche e i suoi scandali.

Ancora una volta la solidarietà delle persone agisce indipendentemente, non si cura delle chiacchiere di amministratori che cercano alibi o aspiranti tali che indicano responsabilità nei loro colleghi.

La solidarietà agisce, si fa strada, si organizza. Di fronte alla tragedia e alla morte, molti, migliaia di persone si sono date da fare ben oltre quel che si poteva immaginare.

 

Chi è stato nei giorni scorsi nelle strade alluvionate non ha visto solo la disperazione, ma anche la rabbia, non ha trasmesso solo vicinanza, ma solidarietà, che vuol dire rompere passività e rassegnazione, rompere quei meccanismi che ci rendono di solito inermi di fronte a quel che ci accade. Abbiamo rapidamente imparato ad agire insieme, a risolvere problemi piccoli e grandi, abbiamo stravolto il rapporto con chi di solito pretende di dirci cosa dobbiamo fare e invece, nel fango, mostrava tutta la sua incapacità e inadeguatezza.

 

Genova è abituata a tutto questo. E’ già successo e potrà accadere ancora. Ci sono state le tragedie e le reazioni di solidarietà e d’orgoglio. Tante volte negli ultimi decenni.

La stampa, sempre con la sua retorica, cerca di dipingere appunto l’orgoglio cittadino, la Genova che si rialza e reagisce, racconta la storia dei genovesi come se fossero tutti uguali, come se le storie dei genovesi facessero tutte un’unica grande storia. E invece le storie sono tante, e non è indifferente, nel raccontarle, dove si pongono i riflettori.

 

E’ vero che Genova ha un atavico problema con i suoi fiumi, i sui rii ed suoi bei, ma un tempo i boschi delle sue colline e dell’entroterra erano vissuti e, pertanto, puliti; la cementificazione non aveva ancora dissestato il territorio, gli argini non erano stati costruiti dimmezzando i letti dei fiumi e questi sfogavano naturalmente. Non si tratta di rimpiangere i tempi andati o immaginare ritorni ad un passato campestre ma individuare cause e responsabilità.

Qualcuno ha deciso di costruire zone industriali ed interi quartieri a ridosso dei due principali fiumi cittadini. A volte in zone infossate che diventano vere e proprie conche al di sotto del livello del Bisagno, come piazzale Adriatico e la parte di Staglieno incuneata tra il cimitero, il tunnel e l’uscita autostradale. Qualcuno ha deciso di coprire il Bisagno nel suo tratto finale iniziando il “tappo” proprio in corrispondenza della stazione ferroviaria e stringendo ulteriormente i suoi argini.

E quel che vale per la Valbisagno ha le sue analogie nella Valpolcevera, senza dimenticare il Ponente genovese.

Chi ha fatto queste scelte nell’ultimo secolo, e chi le fa ai giorni nostri, non è solamente un incompetente. Le scelte dell’urbanistica, delle grandi opere, dell’edilizia popolare, rispondono a precisi interessi politici ed economici.

Devono considerare chi andrà a vivere nei quartieri e proporzionare i costi con i profitti dei costruttori.

E chi andrà a vivere nelle zone con più alta probabilità di inondazione? I più poveri.

Chi abiterà nei pressi delle stazioni e lungo i binari? I più poveri.

Chi vivrà accanto alle autostrade, o in una zona industriale, o vicino agli aeroporti? Sempre i più poveri, ovviamente.

Raramente sono i quartieri dei ricchi ad essere allagati o a subire i maggiori danni, sia perché essi hanno più possibilità di scegliere dove vivere sia perché le zone peggio costruite, con minori servizi, con materiali scadenti, con minore manutenzione, o con minore interesse e attenzione dei “politici” sono quelle che costano meno ovvero quelle dove abita chi ha meno scelta.

Le stesse zone spesso sono nel mirino di qualsiasi amministrazione e delle imprese di costruzione di grandi opere che, distruggendo ulteriormente il territorio per soddisfare i loro interessi milionari, omettono i prevedibili disastri che possono verificarsi sui terreni e sulla pelle degli abitanti, come frane e smottamenti. Proprio come il deragliamento del Frecciabianca a Fegino dovuto a una frana dal cantiere del Terzo Valico provocata dal disboscamento del Cociv a Trasta. A disastro compiuto il gruppo leadership di grandi opere, Salini-Impregilo, azionista del Cociv, dona alla città di Genova il progetto del terzo lotto per la messa in sicurezza del Bisagno. Con abilità ci si ripulisce la facciata.

 

Non si tratta della natura che si ribella all’uomo ma di una classe dirigente che pensa solo al profitto. Da sempre e senza alternativa possibile. Tanto non sono loro a pagarne le conseguenze.

Certo, i soldi per migliorare la situazione potrebbero esserci. Ma il “denaro pubblico” non lo spendono certo per gli interessi comuni, piuttosto col denaro pubblico fanno affari, danno appalti ai loro amici, finanziano opere come il Terzo Valico nell’interesse di manager, grandi imprenditori e mafiosi. E nessuna nuova giunta potrebbe fare diversamente.

Eravamo nei quartieri popolari a spalare fango perché proprio questi sono stati colpiti.

Eravamo in questi quartieri insieme a centinaia di persone che semplicemente, si aiutavano e sviluppavano la capacità di farlo di fronte all’incompetenza delle istituzioni, nelle sue varie forme e divise.

Se a Genova la Protezione Civile e l’Esercito non hanno attuato gli stessi meccanismi che si sono visti all’Aquila – o che, ad esempio si stanno dando a Rossiglione, dove l’iniziativa volontaria e spontanea fuori dai ranghi “non è gradita” – è perché la solidarietà ha assunto forme, espressioni e dimensioni non controllabili, non gestibili.

 

Qualcuno ha detto che siamo tutti sporchi dello stesso fango: non è vero, alcuni non potranno mai lavarsi la loro coscienza sporca. Continuano a chiamarci angeli, perché vorrebbero un ritorno alla candida normalità: vorrebbero che attendessimo, che ci perdessimo nelle nuove chiacchiere che si sprecheranno nelle prossime settimane e mesi, che aspettassimo nuovi finanziamenti, che rientrassimo nella normalità, nella passività e nella delega.

Ma non siamo angeli: vogliamo fare tesoro di quanto accaduto, delle nostre esperienze. Abbiamo visto che la gente comune può organizzarsi, direttamente, senza aspettare le istituzioni, anche nella tragedia.

Se non vogliamo nuove tragedie, o una vita in cui precaria è persino l’attesa del prossimo disastro, non possiamo fare altro che organizzarci, direttamente, senza aspettare nessuno, nella vita di tutti i giorni, per risolvere i nostri problemi.

Da subito. Insieme.

 

casa occupata di vico pellicceria

qui il pdf:

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Diavoli nel fango

Alcune giornate segnano la vita delle città e dei suoi abitanti in maniera indelebile. Certe volte, in una manciata di giorni, si possono provare sentimenti così contrastanti che, chi non li ha vissuti, non può comprendere a pieno.
I metereologi prevedevano i rischi, i giornali riportavano titoli apocalittici, eppure tutto sembrava come un normale acquazzone. Dietro l’incredulità, che poche ore dopo avremmo maledetto, ci sono ragioni ben precise. La nostra quotidianità è scandita da orari, schemi, tragitti non decisi da noi: sono quelli che ci portano ogni giorno nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università. Chi giudica stupidi o imprudenti coloro che hanno rischiato o perso la vita uscendo nel bel mezzo dell’inferno per raggiungere parenti, amici o semplicemente la propria casa, non tiene conto del fatto che viviamo in una società dove purtroppo non ci è concesso rimanere sotto le coperte se il tempo fuori non ci aggrada.
Le scuole erano aperte, ai lavoratori di ogni categoria toccava far funzionare la città come in un qualsiasi giorno, macchine e cassonetti (che per partite di calcio o semplici manifestazioni vengono portati via senza il minimo buonsenso) rimanevano al loro posto. Per gli errori di valutazione degli “esperti” e di chi ha in mano il potere in questa città, non si è evitato l’evitabile: la strage di chi lavorava come in un giorno normale o di chi tentava di raggiungere i propri cari (la rete di telefonia mobile impazzita per 24 h rende bene la quantità di persone che avevano qualcuno per cui stare in pensiero).
Ma c’è anche stato un duplice errore di noi tutti. Credere alle istituzioni, che non meritano alcuna fiducia; delegare a chi ci comanda la sicurezza nostra e di chi ci è più caro. La reazione dei giorni seguenti però possiamo definirla incredibile se non magica. Una città che spesso viene descritta come avida, soprattutto di sentimenti, dove della socialità e del mutuo appoggio, per cui i quartieri erano famosi, non è rimasto che uno sbiadito ricordo, ha deciso finalmente di non aspettare che dai piani alti arrivassero le soluzioni e gli aiuti.
Sotto gli occhi complici dei passanti i cantieri della città sono stati “ripuliti”, da alcuni volenterosi, di tutto ciò che poteva essere utile: non hanno aspettato che qualcuno dicesse dove andare, non hanno aspettato che qualcuno procurasse pale, secchi, cuffe.
La macchina dei soccorsi non convinceva nessuno: pochi uomini, pochi mezzi, l’assurdità delle strade distrutte dalla furia del fango, zone altamente presidiate dalle Forze dell’Ordine perché sotto i riflettori dei media, e zone completamente dimenticate dalla stessa Protezione Civile, che nel frattempo dissuadeva dal muoversi autonomamente chi voleva dare una mano.
Quando abbiamo iniziato a lavorare ci sentivamo impotenti, impacciati, quasi inutili. Ma col passare delle ore, con l’aumentare delle braccia abbiamo iniziato a renderci conto della nostra forza, guardavamo increduli riemergere i marciapiedi, i tombini, le panchine prima irriconoscibili. L’entusiasmo del trovare in un amico o in un conoscente un fratello, da abbracciare alla fine delle mille piccole “imprese” che hanno segnato le giornate, lo scovare in sconosciuti lo stesso sorriso sui volti sporchi e affaticatici ha fatto sentire vicini. Nessuno comandava le operazioni, ognuno metteva a disposizione la propria esperienza e le proprie conoscenze.
Dividerci i pasti distribuiti, brindare con le birre regalate, passarci sigarette… Dietro la gioia del riscoprire che uniti e auto-organizzati si vince c’è la consapevolezza di essersi opposti a una devastazione, che non cade dal cielo come l’acqua ma che si infiltra nelle nostre vite quotidiane. La scelta di non delegare ad autorità e istituzioni la pulizia delle strade, l’aiuto a chi ha perso casa, non è del tutto “angelica” come i media provano a far passare.
Quella voglia di vedere coi nostri occhi le zone disastrate, procurarci da soli il necessario per ripulirle, lavorare dividendoci spontaneamente compiti e mansioni, inventarsi soluzioni per superare senza scoraggiarsi ogni ostacolo, non nasce solo da un sentimento di solidarietà ma anche da precisi motivi di rabbia: la rabbia verso chi considera agibili pezzi di città che si trasformano in trappole mortali e allo stesso tempo sfratta chi non può permettersi un affitto o chi vive in edifici che per motivi speculativi vengono considerati inagibili; la rabbia verso chi ha tenuto aperti luoghi di lavoro e scuole per poi addirittura vantarsene il giorno seguente, la rabbia verso chi pretende di comandarci, decidere per noi e poi si dimostra totalmente sprezzante delle vite degli abitanti della città; la rabbia verso chi ha speculato per decenni cementificando, edificando dove era folle, strozzando in una morsa di case abitate corsi d’acqua poi abbandonati a sé stessi.
Questa rabbia ha donato fiducia in noi stessi e negli altri abitanti della città, ci ha convinti definitivamente a non avere nessuna fiducia in politici di ogni colore e istituzioni, il cui solo compito è di perpetrare la ricchezza di pochi impoverendo molti. Tagli ai servizi pubblici (sanità, trasporti, istruzione, assistenza), lavoro precario e introvabile, strozzinaggio legalizzato tramite prestiti e mutui, ci rendono sempre più sfruttati e ricattabili.
Non dimentichiamoci la lezione di questi giorni: supportandoci, incontrandoci, conoscendoci possiamo migliorare i nostri quartieri e riscoprirci più forti e capaci delle istituzioni. Non deleghiamo a nessuno i nostri bisogni: che si pretendano case, rimborsi, aiuti a chi ha perso la casa o a chi ha subito danni nell’alluvione, e che non si creda a nessuna promessa.
Se le case non arrivano presto, che vengano prese! La città è piena di edifici in ottime condizioni perfettamente abitabili, rompere i lucchetti e le serrature, prenderseli, è un gesto giusto e sacrosanto quanto spalare via il fango.
Diavoli nel fango