Molto è già stato detto sulla Tav, sul Terzo Valico e sulle ragioni del No, e tante altre volte vanno ribadite per distogliere le coscienze dalla propaganda nazionale. La popolazione si rende conto di ciò che sommariamente vogliono dire le Grandi Opere: esproprio di terra e/o case ai residenti ed eventualmente di un pezzo del loro cuore; ridefinizione di un territorio, delle sue abitudini, della sua natura in cambio di quel deserto esistenziale fatto di cemento, rumore e inquinamento, che stiamo imparando a conoscere ovunque. Distruzione di un habitat naturale e sociale, insomma.
Quello che alcuni, magari semplificando un po’, definirebbero un panorama di merda.
Ad arricchirsi ovviamente saranno i soliti: la vasta cricca di chi specula sui grossi spostamenti di denaro. Qualcuno ci guadagna subito, altri investono per rifarsi poi con gli interessi. La grande opera rappresenta dunque un grosso spostamento di denaro, ancor prima della sua reale costruzione. Prevede un continuo spostamento di materiali, guardie, e una volta conclusa magari radiazioni (Muos), o merci e manager. Sti cazzi! Per gli sfigati che non ci guadagnano nulla rimane la beffa di un trasporto pubblico abbandonato al grottesco magna-magna delle dirigenze, con frequenze e condizioni sempre peggiori e aumenti del costo del biglietto. La solita esistenza precaria.
Fra tutti questi flussi di soldi, militari e logistica arriviamo al totem della collusione fra la triade sindacale e i padroni: la mistificazione sui nuovi posti di lavoro. Già perché di lavori utili alla collettività ce ne sarebbero a bizzeffe al mondo, ma non sono finanziati. Nemmeno quelli di basilare manutenzione del territorio in cui viviamo, che potrebbero servire a prevenire alluvioni, frane ed esondazioni. Le grandi opere invece spostano banalmente del lavoro fuori città. E si tratta di un lavoro infame: quello contro altri lavoratori, parte dei grandi ed eterogenei movimenti d’opposizione: camionisti contro camionisti, facchini contro facchini, operai contro operai, operai contro contadini, e via dicendo. Sta suonando la sveglia, è tempo di ricordarsi cos’era e cosa vuol dire la solidarietà fra sfruttati, e decifrare, se ci fossero ancora dei dubbi, chi sono i servi e chi i padroni, per sapere a chi far pagare una volta per tutte il conto. Attenzione che scotta.
Le grandi opere quindi al momento sembrano creare più che altro distruzione, cementificazione, spostamenti e, per così dire, attriti. Che scenario! Tutto deve andare di corsa, il denaro, le merci, le quotazioni in borsa, la produttività, e anche noi. Per inseguire gli ingranaggi di un modello di sviluppo in crisi permanente – quella che pagano sempre i poveri – che tende a plasmare noi e quello che ci circonda a propria immagine e somiglianza: spostamenti sempre più veloci, città sempre più grandi, più smog, più stress, impotenza, solitudine, paura, accondiscendenza. E il Tav per unire le metropoli e mettere più velocemente in circolo la loro merda.
Non ci piace. Anche se siamo nati in città e forse ci siamo già sentiti come sabbia imprigionata nella grande clessidra che segna il tempo del nostro lavoro – un ciclo da una parte, un ciclo dall’altra – capiamo che l’alta velocità di una grande opera in valle è come l’alta velocità del progetto di metropoli e, più in generale di città moderna: sposta lavoratori da un quartiere o da un comune all’altro secondo l’offerta di lavoro flessibile, espropria per costruire centri commerciali, e intanto vende ai poveri elettrodomestici usa-e-getta e plastica della Ekom, ai ricchi le alte tecnologie in graziosi centri storici-vetrina, un po’ trasgressivi un po’ patinati, sicuramente cool, sicuramente smart, una volta ripuliti dalle persone.
Capiamo che il progetto dell’alta velocità non riguarda solo i territori dove passerà, ma riguarda ognuno di noi, perché è anche attraverso questi assestamenti che l’attuale sistema di sviluppo mafioso si riorganizza per sopravvivere. E’ giunta l’ora di scioperare dal posto di lavoro allora, dalla scuola, dal proprio ruolo nella normalità, per diffonderci come sabbia negli ingranaggi della produzione. Non ci rimane che bloccare la logistica, è ormai ovunque. Blocchiamo i suoi spostamenti ininterrotti, blocchiamo le merci, i manager che qui viaggiano da sempre in prima classe, i rastrellamenti delle guardie. Facciamolo per noi, per la nostra dignità calpestata, e per le valli in lotta, dove i tentacoli della metropoli cercano oggi di arrivare.
Casa Occupata di vico Pellicceria 1